Paradossi



I paradossi mi affascinano da sempre, poiché descrivono delle condizioni contraddittorie o impossibili in se stesse, che in qualche modo rappresentano la dualità in cui noi ci muoviamo, ma da cui non riusciamo ad uscire. Credo infatti che essi simboleggino il limite della logica a cui possiamo attingere, facendoci scontrare con l’impossibilità di trovare una soluzione al suo stesso interno. Indicano dunque che dobbiamo cercarla altrove, ma dove? 

Credo sia stato addirittura ai tempi delle scuole elementari che ho sentito raccontare la storia della corsa tra la tartaruga e Achille:


“Fu Zenone di Elea, filosofo greco vissuto nel V secolo a.C., a proporre il celebre paradosso di Achille e della tartaruga. Immaginò che Achille, noto per essere il “piè veloce”, venisse sfidato a raggiungere la lenta tartaruga, alla quale fu però concesso un vantaggio iniziale. Il paradosso era fondato su questo presupposto: nel tempo che Achille impiega per raggiungere il punto in cui inizialmente si trova la tartaruga, quest’ultima avrà, comunque, percorso un piccolo tratto. Quando Achille avrà percorso questo piccolo tratto, la tartaruga sarà ulteriormente avanzata. E Achille non raggiungerà mai la tartaruga, perché dovrà percorrere gli infiniti spazi che colmano la distanza tra i concorrenti.”

 So che fa sorridere pensarci, ma a me questa storia faceva risuonare qualcosa di profondo, cioè che esistesse un diverso tipo di spazio da tenere in considerazione che non si prestava ad alcuna misurazione: l’Infinito. Nella nostra logica lineare del tempo/spazio, è ovvio che Achille raggiunge e supera la tartaruga, eppure è vero anche che non la raggiungerà mai, perché l’Infinito apre una direzione nuova dello spazio: la profondità senza fine. Allo stesso modo in cui consideriamo tempo e spazio una sola dimensione, così lo sono Infinito ed Eternità. Quell’intervallo fra due istanti che crediamo di essere in grado di percepire e definire (le diverse posizioni dei due concorrenti), non è in sé definibile: non troveremo mai l’esatto punto in cui qualcosa di preciso si trova. Tutto è in movimento, tutto è Trasformazione continua. Ci basiamo soltanto sui limiti della nostra percezione, che oltre un certo grado non riesce più a distinguere le leali condizioni che sta osservando. E’ come utilizzare un microscopio per vedere cose troppo piccole alla nostra vista; il punto è che c’è sempre una maggiore profondità da considerare. Quella è stata la prima volta che mi è balenata l’intuizione che ci fosse qualcosa di più ampio della percezione.

I paradossi mi spingono sempre in riflessioni irrazionali, ma a me paiono sempre molto concrete. Prendete il più classico e conosciuto: è nato prima l’uovo o la gallina? Di fatto questo gioco di parole si risolve facilmente decidendo arbitrariamente dove situare l’inizio, ma dovete riconoscere che in sé pone l’affascinante tematica dell’effetto causale, tanto logico e tanto caro a ciascuno di noi. Se provate a porvi questa domanda in relazione ad altre vicende più concrete, e cercate bene fino in fondo, potreste trovarvi di fronte allo stesso stato di empasse, dovendo riconoscere che alla radice di ogni questione non si può che incontrare ciò che trascende la dualità stessa, e che quindi annulla ogni causalità.

Facciamo un esempio:

-Perché zoppichi?

-Perché ho picchiato contro la porta con il mignolo del piede.
-Perché?
-Perché ero distratto.
-Perché?
-Perché stavo pensando ad un problema importante.
-Perché?
-Perché sono preoccupato e non posso smettere di esserlo?
-Perché?
-Non lo so.
Ecco finalmente dove arriviamo seguendo la logica causale:
-Perché zoppichi?
-Non lo so.

 Mi vengono in mente i bambini, quando attraversano quella fase della crescita in cui chiedono il perché di ogni singola cosa, come se nessuna risposta fosse per loro sufficiente.

Per via della proprietà transitiva, la domanda conduce come unica risposta possibile a quel “non lo so”, poiché la radice da cui nascono gli eventi risiede nell’inconscio, dove tutto si contrae e coincide, dove ogni istante è l’unico possibile. Allora, anche in virtù di tutto il discorso fatto nei libri circa l’inesistenza del tempo, dobbiamo davvero chiederci se viene prima il pensiero preoccupante o il colpire la porta. Lo so che sembra di fare discorsi assurdi, ma se guardiamo bene, scopriremo che essi si producono insieme. Il paradosso risiede nell’impossibilità di stabilire un legame causale e temporale fra due eventi, perchè ciascuno è contemporaneamente causa e conseguenza dell’altro, senza un passato pregresso. Comprendo che tutto questo suoni strano di fronte alla nostra radicata concezione degli eventi come situazioni da risolvere, a cui cercare soluzione. E se invece ci fosse un’altra via? Se il vedere diversamente gli eventi e lo smettere completamente di cercarne cause e rimedi aprisse una dimensione completamente diversa? Dov’è che di tanta teoria incamerata facciamo la nostra realtà concreta?

Certamente questo è il mio preferito: “Se un albero cade in una foresta in cui non c’è nessuno a sentirlo, fa rumore?” Ho già parlato di questo esempio in uno dei miei libri, esso descrive in modo totale l’impossibilità di immaginare e percepire la nostra stessa assenza, elemento che ci fa porre questioni sull’esistenza a cui non è possibile trovare risposta, poiché non possiamo riconoscere ciò che trascende i limiti della nostra stessa percezione e coscienza. Come posso sapere chi sono se non posso immaginare di non essere? Ecco allora che l’Io genera Dio come estrema differenza da se stesso, dovendo necessariamente idealizzare ciò che non è in grado di raggiungere. Pone così una distanza tra sé e ciò che è altro da sé, (non entriamo qui in tutta quella parte di discorso che attiene dunque alla natura di Dio), per poter definire la propria identità, continuando tuttavia a tentare di raggiungere attraverso la propria coscienza ciò che trascende e che compone la coscienza stessa. Credo sia qui la sottigliezza di questo paradosso: il fatto di non riuscire ad immaginare la nostra assenza dovrebbe restituirci una sorta di totalità, poiché l’intera nostra vita si svolge in ragione della nostra percezione di essa, e questo significa che qualcosa in noi è l’elemento unificatore di tutto ciò che sperimentiamo. Come a dire che questa considerazione dovrebbe farci scorgere non le differenze che percepiamo, ma ciò che al fondo di esse è sempre uguale. Invece in risposta alla nostra incomprensione creiamo mete maggiormente lontane, più difficili da raggiungere, in modo che ci restituiscano sempre un riflesso di ciò che crediamo di essere. I grandi Maestri dicevano sempre che il più grande ostacolo al risveglio è la convinzione di non esserlo già. L’Io si pone domande sulla propria natura infinita come se ne fosse separato, ma essendo esso illusorio la domanda stessa diviene il vincolo che gli impedisce di oltrepassare se stesso.

 Ecco dunque che la natura del paradosso non può che essere la resa. L’impossibilità di trovare risposta conduce a smettere di cercarla, e dunque a riconoscere di esserla già.


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