Dissolvenza

 


Pensando alla questione della morte all’interno del mio percorso personale, uno degli scogli più difficili da comprendere rappresentava per me il corpo fisico, il dopo del corpo fisico, nello specifico il suo permanere a dispetto dell’allontanamento dell’energia che lo abita. Ci ho dovuto riflettere per molto tempo. Quando qualcosa stona con la visione che ho dell’Esistenza, mi viene un prurito ossessivo che mi costringe ad addentrarmi in riflessioni di vario tipo, fino a trovare ciò che mi corrisponde, fino a che il tassello trova il suo posto esatto. Non sono in cerca di Verità da dispensare, ma di qualcosa che funzioni per me. La mia visione della vita deve trovare un senso ad ognuno dei miei eventi, benchè non necessariamente logico o alla mia portata. E ad ogni modo mi stupisce sempre vedere come anche le mie pensate più strane abbiano già attraversato la mente di altri, le cui parole mi capita di trovare in libri, articoli o altri luoghi, proprio nel momento in cui mi serve sentirle.

Dunque la questione della solidità del corpo fisico andava risolta per poter tornare a dormire. Se è vero che tutta la materia è fatta di energia, e che tutta l’energia è ugualmente composta di Spirito, anche il corpo in se stesso è Spirito, e deve esserlo in ciascuno dei suoi momenti, sia quando io lo considero vivo, sia quando lo chiamo cadavere. Questo povero oggetto incompreso, considerato un contenitore per lo più di qualcosa di più prezioso ed autentico che vive al suo interno e che ad esso dà vita, beh sorpresa, è anch’esso quella stessa Essenza preziosa. Assodato questo, mi è stato molto più facile riflettere sulla questione della morte come ad un’idea, un preciso e distinguibile evento mentale. Mi addolorava l’idea di separazione tra la materia e l’anima, perché contrastava con l’Unità, secondo cui niente, ma proprio niente, è diverso da Dio, mentre noi ci concentriamo su una parte soltanto dell’insieme, credo perché ci è impossibile riconoscere ancora noi stessi nel corpo ormai nella sua trasformazione suprema.

E’ stato allora che ho trovato i racconti dei monaci Buddhisti su quella che viene chiamata la pratica del corpo arcobaleno. La consapevolezza profonda guadagnata con la vera Meditazione, consente a questi esseri di dissolvere completamente il proprio corpo fisico in sette giorni dopo la propria morte: la materia che torna energia, perchè non c’è più alcun attaccamento ad un’identità che lo sostiene e gli dà forma. Ho pensato: ma se continuassimo a tornare nelle esperienze di reincarnazione, a rinascere, perché non siamo in grado di cambiare davvero? Se morissimo soltanto perché non sappiamo davvero morire? Allora ci tocca ripartire da capo, dall’inizio della morte che noi chiamiamo vita, passando attraverso l’ignota vita che separa due morti. Cos’è allora la vera morte? Se scompare interamente il mio Io, allora anche il corpo deve seguirlo, essendo nient’altro che una sua espressione, inseparabile da esso.

Recentemente ho letto una riflessione molto interessante di Jung sulla proprietà transitiva che ci viene insegnata a scuola, secondo cui se a=b e b=c allora anche a=c. Ma, si chiedeva lui, come può essere a=b? Aveva ragione, ma credo che sia unicamente un problema di prospettiva. Mi piace tentare di guardare all’esistenza dal punto di vista di quell’unico atomo che dà vita ad ogni cosa. Mi importa poco che da esso siano infinite le manifestazioni osservabili: lo Spirito è ciò che rende intimamente a=b, il che annulla sia a che b. Cosa rimane? Eccola la mia domanda preferita. Quando riesco a togliere proprio tutto, e la mente non ha pensieri nuovi da sottopormi, cosa rimane? Nemmeno il corpo fisico può resistere a quel Ciò che rimane.

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