Simbolismo dello Specchio
Come per quasi tutto, quando parliamo di come di come gli altri
che incontriamo (persone, ma anche eventi) siano nostri riflessi, intendiamo la
questione in modo molto blando, sempre entro quei limiti che ci sono comodi per
mantenere salda la nostra identità. Ma se stiamo cercando davvero l’Assoluto,
dobbiamo deciderci ad abbandonare le mezze misure.
Perché facciamo una distinzione fra noi e gli altri? La nostra
percezione ci restituisce indubbiamente delle differenze, ma perché attribuiamo
a queste differenze il nostro senso di identità? Da dove ci viene questo
insegnamento? Non stiamo parlando di un semplice apprendimento ricevuto da
altri, ma del nostro attaccamento alla soggettività, della convinzione di
esistere come individui singoli; un’idea così forte da prendere forma in ciò
che chiamiamo realtà, e così articolata da non poter essere superata. Perciò
dobbiamo partire da qui, da noi stessi.
Dobbiamo riuscire a comprendere che tutto ciò di cui facciamo
esperienza si verifica all’interno di un preciso spazio, che è quello della
nostra coscienza e percezione: se non sappiamo che sta accadendo, se non trova
spazio nei nostri pensieri, nessun evento, letteralmente, sta accadendo o esiste.
Noi guardiamo alle vicende del mondo pensando che esse scorrano indipendentemente
da noi, eppure esse si producono soltanto nel nostro esserne consapevoli, anche
attraverso l’immaginazione (che appartiene comunque alla percezione
soggettiva).
Facciamo un passo di lato per comprendere meglio. Quando guardiamo la nostra immagine in uno specchio, ciò che crediamo di vedere, a cui diamo un nome ed un’identità precisa, non è in realtà altro che una somma di percezioni. Altri guardando quell’immagine vedrebbero un insieme diverso, secondo ciò che essa riflette e fa risuonare in loro, secondo i propri personali filtri percettivi ed esperienziali. Questo accade perché noi stiamo comparendo nel loro spazio di coscienza, quindi gli altri colgono la propria percezione in noi. Colgono se stessi in noi. Questo è quello che accade. Noi non siamo un’immagine fissa oggettivabile, quanto piuttosto una singolarità perennemente variabile all’interno di un filtro percettivo che cambia senza sosta. Perciò, gli eventi o le persone che incontriamo non hanno un valore assoluto, ma ci chiedono di comprendere quale risonanza risvegliano in noi sulla base di come li percepiamo. La domanda è sempre: “cosa sto vedendo di me?” E ciascuno di noi possiede l’unica chiave interpretativa per poter rispondere. Anche se la risposta generale è che stiamo sempre e comunque guardando noi stessi, perché non c’è altro che la nostra percezione a dare forma alle cose. In effetti più che parlare di qualcosa che vediamo, dovremmo parlare di ciò a cui la nostra percezione dà forma. In pratica, ciò di cui prendiamo consapevolezza è fatto della nostra stessa coscienza, e dunque non può che essere parte della nostra identità. Non esistono eventi o persone in sé, ma solo percezioni, e la percezione è soggettiva. Perciò tutto ciò che possiamo incontrare là fuori siamo noi, o meglio, il nostro sentire, che appare in svariate forme così come siamo in grado di rappresentarci.
Che cosa stiamo guardando dunque? Poiché tutto è solo percezione, ciò che sentiamo non può che essere un simbolo, cioè l’espressione della proiezione dei nostri attaccamenti, la cui somma deve essere per forza sintetizzata in qualcosa di definito e percepibile, poiché attinge la propria natura da piani in cui la percezione non è presente. In pratica, ogni cosa, compresa la nostra stessa immagine, è una rappresentazione della coscienza che dà loro forma. Se vogliamo sapere a cosa si riferiscono queste rappresentazioni, dobbiamo partire non dalla logica ma dal sentire, continuando a scendere da lì senza fine.
Tornando allora all’atto creativo di questa coscienza, dobbiamo ammettere che comprendiamo questo discorso a livello intellettivo, ma solo parzialmente, tant’è che usiamo l’espressione “essere specchio l’uno per l’altro”, continuando a mantenere nella nostra prospettiva “l’altro”, cioè esattamente ciò che abbiamo visto non esistere. Vogliamo mantenere aperta una via di fuga, quindi non possiamo rinunciare a questo “altro” perché è funzionale al nostro bisogno di definire chi siamo, e poiché non siamo in grado di dare risposta a questa domanda, lo facciamo tramite il riscontro di ciò che non siamo. Così usiamo la percezione per stabilire delle differenze e dei confini, e per farlo, oggettiviamo ogni cosa. Di fatto viviamo nella continua illusione di stare percependo la medesima “realtà”; niente di più falso di questo. È proprio qui che dobbiamo tagliare il cordone. Non è questo il significato dello specchio, al contrario esso propone il problema di comprendere che ciò che viene restituito è interamente e soltanto ciò che vi si pone davanti: la nostra coscienza. È difficile, è spaventoso, è totale. Ci spaventa il non comprendere i nostri meccanismi profondi che danno forma alle cose, gli attaccamenti su cui si sviluppano, né quelli attraverso cui li interpretiamo; ci spaventa l’idea di essere responsabili di ciò che vediamo, benché la consapevolezza dell’inesistenza dell’altro dovrebbe sollevarci da questo timore. La prospettiva che genera il senso di colpa tuttavia si basa su un presupposto inesatto: attribuire un valore univoco e collettivo alla percezione, facendola diventare un evento.
Ci sono elementi molto densi in questo discorso che dobbiamo fare nostri: il simbolismo della rappresentazione e l’unicità della coscienza. Ma non abbiamo finito. Pur giunti fino a questo enorme passo, c’è in tutto questo discorso qualcosa che ancora stona, qualcosa che deve essere tolto. Lo specchio come simbolismo presenta infatti tutto un altro aspetto. Se non c’è altro al di fuori di colui che si riflette, secondo cosa possiamo definire questo colui, secondo quali riferimenti di differenze? È una perdita di confini. Se tutto ciò che percepisco sono sempre io, cosa resta da definire? È qui che scompare definitivamente anche l’io, e lo specchio si rivela come il simbolo dell’annullamento.
La difficoltà di fare il primo passaggio risiede nella nostra impossibilità di immaginare il tutto, pertanto tentiamo di immedesimarci con il sentire nelle cose che percepiamo, come se dovessimo sentire di essere anche l’altro. L’io è sempre lo scoglio, e finché non scompare, in qualche modo anche l’altro rimane. Ecco perché, come sempre accade, il primo passaggio ed il secondo di verificano nello stesso istante. Per poter sentire tutto, devo perdere la soggettività parziale, e per farlo mi serve superare le differenze. Là fuori non c’è davvero nessuno solo quando l’io e l’altro scompaiono, e non possono che farlo insieme.
Se quindi riuscite ad immaginare che la Coscienza sia lo spazio in cui tutte le nostre soggettività si muovono, riuscirete a correggere il concetto da cui siamo partiti: non siamo noi a creare gli eventi, ma ogni cosa che sperimentiamo è fatta di ciò di cui siamo fatti anche noi. All’interno dell’Uno, tutto è immobile, ma infinite coscienze illusorie si muovono generando, attraverso i propri attaccamenti, continui riflessi dell’Uno, che è tutto ciò che può apparire.
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