Diverse prospettive

 


Recentemente ho letto alcuni libri davvero interessanti. Uno di questi è sul Bushido, il codice di condotta etico e morale dei Samurai Giapponesi, detto anche “la via della spada”. Questi guerrieri seguivano una vita rigorosa e disciplinata che si basava sull’onore, la rettitudine e l’imperturbabilità di fronte alla morte, condizione quest’ultima necessaria perché essi fossero sempre pronti ad intervenire in difesa del proprio padrone senza risparmiare nulla di sé. Non a caso la disciplina della spada nell’epoca dei samurai era considerata una vera e propria via di elevazione spirituale, e molti guerrieri divennero anche monaci zen; lo spirito si incarna nell’azione, ma tale azione deve provenire dal vuoto. I samurai erano maestri nell’arte di padroneggiare la mente, e questo era reso molto più semplice proprio dal fatto che la cultura li indirizzava a prendere confidenza con l’idea della morte. 

E’ curioso vedere come l’idea della spiritualità (non dobbiamo mai dimenticare infatti che ciò che ne abbiamo può essere solo un pensiero) sia così diversa e percorra vie quasi opposte in base alla cultura che viene presa come riferimento. Nella nostra cultura occidentale, a dispetto di ciò che spesso ci raccontiamo a parole, la spiritualità si traduce più che altro con un incessante bisogno di modellare la propria personalità in una corsa alla comprensione ed alla santità, in cui apprendere tecniche per risolvere la vita. In questo quadro la morte è un luogo in cui non si può indugiare neanche con il pensiero, perché attardarsi su pensieri negativi attira negatività. 

Non so pensare ad una maggiore dimostrazione di dualità; ancora molte belle parole, ma è decisamente raro riuscire ad accogliere la morte con la stessa disponibilità che dimostriamo agli eventi della nostra coscienza vigile. Ancor così ben presente e netta la distinzione e la divisione fra il bene ed il male, tra ciò che possiamo accettare e ciò che ci ostiniamo a rifiutare di guardare, questa concezione si situa all’opposto di quella dei samurai, per i quali la morte è qualcosa che sono spinti a conoscere fin da piccoli, e che dunque imparano a non temere. Essa è inoltre fonte di onore e profondamente ritualizzata, così come lo è in altre culture. 

Fare spazio alla morte nella propria vita non significa qualche genere di rassegnazione o di indifferenza, ma, almeno per me, porta ad una completezza che quasi ovunque manca. In fondo, se potessimo immaginare davvero di non avere paura della morte, quanto profondamente cambierebbe la nostra vita? Possiamo raccontarcela finchè ci pare e trascinare le nostre conoscenze fino a vette altissime, ma la morte rimane il simbolo per eccellenza degli opposti da integrare, e finchè non arriviamo a quel punto, in realtà non abbiamo ancora compreso nulla. L’esperienza della vita ci ha fornito un ostacolo che non potrà essere evitato in alcun modo: o riusciamo a comprenderlo “morendo in vita” come dicono i grandi Maestri, cioè riconoscendone l’illusorietà e sperimentando ciò che sta oltre essa, o ne saremo sempre vittime inconsapevoli, che subiranno passivamente un evento che di per sé è di enorme rivelazione. 

Se ci chiediamo perché abbiamo paura di morire, dobbiamo ammettere che si tratta della perdita della nostra identità individuale. In punto di morte la gente ripensa alla propria vita analizzando rimorsi e rimpianti, chiedendosi se ha fatto abbastanza per sentire che di sé qualcosa resterà. Ma qualunque idea abbiamo di ciò che succede dopo, continua ad essere legato all’idea di un’identità che è ancora presente. Non è abbastanza. 

La morte ci impone di sperimentare i limiti della nostra idea di noi stessi, così profondamente da oltrepassare ogni idea di vita e di morte. Solo la perdita dello scopo e del bisogno ci rendono possibile accogliere una fine che diventa così trasformazione. Al lato opposto della paura della morte, può risiedere solo la contemplazione, in cui nessuno rimane a temere o non temere la morte.

Commenti