Il nodo delle relazioni

 


Le relazioni sono difficili. Si potrebbe dire altro al riguardo? Quando siamo piccoli immaginiamo come debbano essere, ma non possiamo allontanarci troppo da tutto quello che vediamo e che ci viene insegnato al riguardo. Il confronto tra la nostra immaginazione e ciò che ci ostiniamo a considerare realtà è inevitabilmente distruttivo. Credo che i legami con gli altri siano infarciti di tanta teoria, ma siano spesso completamente vuoti di pratica, di un reale contatto con se stessi e con l’altro. E’ un gioco di ruoli, in cui in base al nome che ogni personaggio assume, ci sono comportamenti precisi da tenere. Le relazioni diventano un dover qualcosa all’altro, e credo che questa sia una delle premesse del fallimento, unitamente alle aspettative ed all’idea che i sentimenti debbano sempre rimanere immutati. Eppure lo sappiamo che niente di noi è duraturo e che tutto cambia sempre, come possiamo pensare che non accada anche alle nostre emozioni, oa l modo in cui ci vediamo l’un l’altro?

Su cosa si basano le nostre relazioni, cosa davvero ci fa legare a qualcuno? Credo che scegliamo di avvicinarci, quale che ne sia il modo, laddove troviamo un certo tipo di affinità con qualcosa di noi stessi. Per affinità non intendo necessariamente delle somiglianze, ma ben più profondamente una certa risonanza, che può avvenire anche tramite differenze molto grandi a volte. Quando si dice che “gli opposti si attraggono”. Così stringiamo legami con l’intento di dare vita ad uno spazio in cui manifestare noi stessi, in cui poterci sentire accolti. Attraverso queste affinità infatti, se prendiamo per vero l’assunto che gli altri sono specchi di noi stessi, la relazione diviene la possibilità di vederci sotto alcuni aspetti in particolare che ci piacciono, e che ci fanno stare bene. Ci rifugiamo in quella parte di identità, che per un po' di tempo è in grado di darci gratificazione, e proprio sulla base di questa sensazione diamo un giudizio della relazione stessa.

Proprio questo punto mi colpiva, perché mi pare che su queste premesse sia molto facile che la relazione diventi uno sforzo: quello di mantenere inalterato quel riflesso che ci viene restituito. Chiediamo alla relazione di esaltare la nostra parte migliore, di farci sentire bene, e per farlo, per far sì che l’altro veda sempre questa bellezza in noi, dobbiamo cercare di manifestare sempre gli stessi tratti. Pensateci: vogliamo che le persone che abbiamo accanto pensino bene di noi, quindi impariamo a sviluppare meccanismi molto ben controllati che ci permettono di far vedere loro solo alcune parti di noi. Così quando gli altri ci giudicano positivamente, possiamo convincerci di tale giudizio e farlo nostro. L’altro diviene, come sempre, il metro di valutazione di noi stessi, e degli eventi che condividiamo. Poiché sappiamo come vogliamo essere visti, sappiamo anche cosa mostrare e cosa no, e ci imponiamo questo proprio nelle reazioni più strette.

Ma mantenere certe condizioni in modo costante e duraturo è difficile, e quando la relazione dura per molto tempo, in qualche modo apre delle crepe in noi, nonostante tutti i nostri sforzi, perché l’abitudine a qualcosa finisce con il distrarci dai nostri intenti. Io amo l’aspetto abitudinario a cui tendono le situazioni, non in termini di monotonia, ma di confidenza. Personalmente non potrei immaginare di dover sempre pensare a come mi sto proponendo, sarà che su questi aspetti sono molto pigra, ma lo trovo uno speco di risorse. Se chi ho accanto non può vedere anche i miei aspetti meno presentabili, come può affermare di amarmi? Ama una parte sola di me, proprio come faccio io. Così quando gli equilibri cambiano, quando la parte di noi più spettinata viene fuori, l’altro si confronta con un nuovo giudizio su di noi, restituendoci tale visione. Spesso allora quel che accade è che la relazione diventa complicata, conflittuale, spigolosa, e ci induce a pensare di dover cambiare strada, di dover cercare altrove quel rimando che abbiamo deciso essere la nostra identità, ma che qui non trova più corrispondenza. L’affinità finisce, perché è solo una parte di ciò che esce da noi.

Perché rendiamo la relazione è un luogo di scelta anziché di totalità? La questione spinosa è sempre quella del giudizio, per cui difficilmente potremmo accettare di legarci a qualcuno di cui non condividiamo la morale e che consideriamo cattivo o sbagliato; e ugualmente non potremmo accettare che l’altro pensi questo di noi. Quanto poco spazio lasciamo a noi stessi, quanto poco siamo capaci di amarci! Ben prima di immaginare tutto questo portato in una relazione, impariamo a vivere attraverso maschere che usiamo per difenderci da noi stessi, per non vedere quel lato oscuro che è in ciascuno di noi, che cammina a braccetto con i nostri pregi e da cui ci è stato insegnato a fuggire. Chiediamo disperatamente a chi abbiamo intorno di riconoscere la nostra santità, e ogni giorno lavoriamo alacremente per scacciare da noi ogni ombra. La relazione diviene lo specchio di questo bisogno di essere giusti, e come tale, difficilmente diventa un luogo di crescita. Ma del resto, crescere non è sempre ciò che davvero vogliamo, poiché richiederebbe di metterci in gioco profondamente di fronte ad un altro che non sarà mai tanto severo con noi quanto noi stessi. E accettarci. Consentire all’altro di vedere ciò che siamo disposti per primi ad osservare di noi stessi. Quando ci specchiamo la mattina prima di uscire, controlliamo ogni dettaglio: vestito, capelli, trucco, ogni particolare della pelle; immaginate che la relazione così come la viviamo sia uno specchio con alcune parti coperte, che ci consente di osservare solo alcuni dettagli dell’immagine, ma non di vedere l’insieme. Voi non vorreste uno specchio completamente libero e pulito in cui riuscire a vedervi bene?

Dunque la domanda fondamentale è: cosa stiamo chiedendo ad una relazione? Di essere facile, o di completarmi? Perché in questo secondo caso è molto probabile che la relazione diventi un luogo ampio e non sempre ospitale, a volte scomodo, in cui è possibile perdersi anche, in cui ci si ritrova a combattere, e che continua a rimandarci di fronte a ciò che respingiamo, ancora e ancora, fino a che diventiamo troppo stanchi per respingerlo, e lo lasciamo entrare. Solo allora essa diventa un luogo di integrazione, di accettazione e di amore di sé, e dell’altro come riflesso di sé.

E’ chiaro che tutto questo non ha a che fare con l’immagine semplicistica che abbiamo in mente delle emozioni e dei sentimenti. Essi cambiano nel corso del tempo, a volte tanto da suggerirci nuovi bisogni, ma attenzione: se rinunciamo ad una relazione senza aver compreso cosa di noi sta manifestando dissonanza, porteremo quell’elemento con noi nella prossima occasione. Le relazioni non sono per niente facili, chiunque riesca a tenerne in piedi una per molto tempo vi dirà la stessa cosa. Sono mutevoli, in crescita, accoglienti ed inospitali allo stesso tempo, ma anche laddove ci pungono in profondità, ci stanno mostrando qualcosa di noi stessi: ciò che sta sotto ai ruoli, ai nomi, alle convenzioni ed alle maschere, per chi davvero lo vuole. Una vera relazione insegna a non doverne mettere di nuove.

In uno spazio in cui sono libera di manifestare ciò che sono, posso apprendere a cambiare. Questo è per me l’amore.

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