Niente di sacro
"... Credo che avessero ragione gli antichi filosofi che supponevano uno strato della nostra anima in comune con altre specie di esistenza, una dimensione "vegetativa" del nostro essere che tende a sfuggire alla coscienza come l'attività di un organo involontario. L'individuo che recupera alla sua consapevolezza questa forza negatrice, questo potere cieco di pura persistenza, questo ritmo stagionale di espansione e contrazione, riconoscendosi per questa via intuitiva in ogni fenomeno della vita cosmica, non considerandosi molto diverso da un cane randagio, da una venatura del marmo, da un cespuglio di rosmarino, ha ottenuto qualcosa di molto simile alla salvezza. ..." (Due vite - Emanuele Trevi)
Ho adorato queste parole, si sono impresse nella mia memoria come un suono preciso, tanto che posso recitarle come un mantra.
In cosa crediamo che consistano la salvezza, la realizzazione, l’illuminazione? Non si tratta di un fare, ma del riconoscere ciò che è già. Se un attore dimentica se stesso credendo di essere il personaggio che sta interpretando, non sarà quel personaggio a dover fare qualcosa per tornare all’attore. L’attore rimane sempre tale, anche nella condizione di perdita di memoria: ricordarsi di chi sia non passa attraverso il personaggio illusorio con cui si identifica, deve solo guardare a ciò che è già in lui dietro la maschera e i vestiti della sua proiezione.
Non c’è nessuno di diverso o di altro da lui. Questa illuminazione non contiene in sé niente di sacro, niente di mistico, niente di speciale. Non ci sono benefici, non ci sono poteri da acquisire o tesori da conquistare. Nel ricordarsi di se stesso, l’attore riassorbe in sé il personaggio che ha creato, lasciando solo l’Uno.
C’è però di più: il processo
di perdita della propria identità illusoria conduce a perdere di vista le
differenze individuali; nella loro essenza, il rosmarino, il cane, il marmo e
l’uomo sono la stessa cosa. Sono lo stesso vuoto. Sono la medesima
non-esistenza, che appare in molte forme rimanendo universale.
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